In Romania il cognome Lovinescu richiama alla memoria almeno tre notissimi intellettuali: il critico letterario Eugen, il drammaturgo Horia e la saggista, nonché dissidente anticeausista, Monica. Pochissimi invece sono coloro i quali, in patria, conoscano Vasile Lovinescu. E ciò meno ancora in Italia.
Nato in Moldavia (rom. Moldova) e precisamente nel comune di Falticeni, il 30 dicembre 1905, si trasferisce a Bucarest dove nel 1927 si laurea in Giurisprudenza e si guadagna da vivere, sino a un certo punto della sua vita, come consulente legale e collaboratore di diverse riviste, talune anche prestigiose: Viata literara, Viata romaneasca, Vremea, Familia, etc.
Inizia sin da giovane a interessarsi alle dottrine orientali, sinché nel 1932 non leggerà in francese Il Re del Mondo di René Guénon: sarà questo l’incontro che imprimerà una svolta radicale alla sua esistenza. Infatti, dopo un fallito tentativo di tradurre il libro in romeno, Lovinescu inizierà a tessere una fitta corrispondenza con Guénon, allora già stabile al Cairo, che durerà dal 1934 sino alle soglie della seconda guerra mondiale nel 1940.
L’anno successivo ai primi contatti epistolari con lo studioso francese, tra il 10 luglio e il 3 agosto 1935, Lovinescu si reca sul Monte Athos per tentare di ottenere il ricollegamento iniziatico con l’esicasmo, ossia con quella che reputava essere la dottrina esoterica del Cristianesimo ortodosso (come la maggior parte dei romeni Lovinescu era naturalmente di religione ortodossa), ma il tentativo non ha esiti positivi: è il primo forte segnale che lo determinerà a entrare nell’Islam e a chiedere il ricollegamento iniziatico nel sufismo, ossia la dottrina esoterica islamica.
Lovinescu dimostra così con la sua diretta esperienza che l’esoterismo cristiano, persino nella forma più pura di Cristianesimo qual è l’ortodossia, è ormai scomparso e il retaggio è, come avrebbe in seguito spiegato lo stesso Guénon, è ridotto ai minimi termini in luoghi pressoché inaccessibili e in condizioni esteriori piuttosto particolari. In una parola: impossibile.
Così nel marzo 1936 Lovinescu parte per la Francia e per la Svizzera e diventa allievo di Titus Burckhardt, entrando nell’Islam il 10 di quello stesso mese, col nome di Abd el-Qader Isa. Entrerà poi subito in un tariqa (confraternita) sufi sotto l’egida di Frithjof Schuon. Sia quest’ultimo, sia Burckhardt, prendono tutti le mosse dall’insegnamento di René Guénon, anche se, nel corso del tempo, Schuon sbanderà, costringendo Lovinescu (e anche un altro romeno di più nota fama, ossia Mihai Valsan) ad allontanarsene per ribadire la propria fedeltà alla dottrina esposta dal francese.
Qui non possiamo, né vogliamo, indugiare oltremodo sui dettagliati rapporti tra queste persone, e né vogliamo entrare nel merito delle questioni in gioco, pur di decisiva importanza. Ciò che importa sapere di Lovinescu è che egli fu l’unico studioso romeno e mettere per la prima volta in luce alcuni fondamentali temi legati alla Romania, e lo fece sulla scorta delle dottrine tradizionali che aveva assorbito e che via via assorbiva attraverso lo studio e la pratica. I risultati degli studi di Vasile Lovinescu sono contenuti in diversi scritti, oggi purtroppo difficilmente reperibili nel Paese carpatico e invece paradossalmente più facili a procurarsi in Italia (i testi essenziali sono stati tradotti da Claudio Mutti e pubblicati dalle Edizioni all’insegna del Veltro).
Nella Dacia iperborea – una collezione rielaborata di articoli che l’autore pubblicò su Études Traditionnelles, la rivista di studi tradizionali il cui più importante animatore fu proprio Guénon – Lovinescu traccia un quadro della storia e della geografia sacre della Romania. Seguiranno La colonna traiana, un lavoro di commento al monumento eponimo, che si concentra sullo sviluppo del tema della «funzione imperiale, nella quale autorità spirituale e potere politico realizzano la loro sintesi, e si conclude con un capitolo sull’idea imperiale di Dante e sul simbolismo ghibellino della Divina Commedia» (Mutti). Terzo testo è Ciubar Voda («Principe Mastello»), che, secondo Lovinescu, sarebbe simbolo del Re del Graal e un principe pare realmente esistito nel XV secolo. In quest’ultimo saggio Lovinescu, tra l’altro, chiama in causa uno degli scrittori romeni più popolari, ossia Vasile Alecsandri, che sarebbe stato portavoce di una tradizione segreta. Un altro testo che coinvolge, e questa volta sin dal titolo, uno scrittore romeno, è Creanga si Creanga de aur, ossia «Creanga e il Ramo d’oro». Ion Creanga (questo nome in romeno vuol dire appunto «ramo») è l’autore di notissimi racconti e in particolare di Amintiri din copilarie («Ricordi d’infanzia»), uno dei libri più letti in Romania. In questo lavoro Vasile Lovinescu termina l’analisi in senso esoterico delle favole di Creanga iniziata già alla fine della Dacia iperborea. Vi sono ancora due altri scritti che trattano direttamente della tradizione popolare della Romania e in cui Lovinescu scorge tracce sensibili e profonde della Tradizione primordiale. Essi sono Il quarto pellegrinaggio. Esegesi notturna di «I prìncipi di Curtea-Veche», una decifrazione del simbolismo contenuto in Craii de Curtea-Veche, il celeberrimo romanzo di Mateiu Caragiale, figlio del grandissimo drammaturgo Ion Luca Caragiale, e Interpretazione esoterica di alcune fiabe e ballate popolari romene. Tra gli altri suoi fondamentali testi ci sono ancora L’incantesimo del sangue. Qualche elemento esoterico dall’iconografia e dalla letteratura colta e Il mito straziato. Messaggi antichi. Lovinescu trattò, sempre in tema di storia sacra romena, anche di Stefan cel Mare (Stefano il Grande) in Il mito del monarca nascosto.
Pubblicò ancora diversi articoli, anche se a un certo punto cessò di dare i suoi lavori alle riviste, e tenne un diario, uscito in diverse parti e con diversi titoli.
Le Edizioni all’insegna del Veltro hanno di recente dato alle stampe una breve ma significativa raccolta di articoli composti da Vasile Lovinescu per la rivista «Vremea», pubblicata in Romania negli anni Trenta, e che riprende il titolo eponimo della pubblicazione.
In questa lamina cartacea si spazia dall’opera di Richard Wagner a Nietzsche, dal mistico tedesco medievale Meister Eckhart a René Guénon, passando per i più disparati argomenti, quali il concetto di mare come «principio femminile», la «mistica del fascismo», la concezione del viaggio e molto altro. Un saggio che si legge nel volger di un’ora e che rende merito all’attività pubblicistica di Lovinescu, sino a questo momento inedita in Italia.
Da queste pagine emerge soprattutto la figura del «contemplatore solitario», così come lo aveva definito lo scrittore Dan Stanca, ancora vivente e che per un certo periodo fu discepolo di Lovinescu, in un suo libro del 1997. Un contemplatore che cercò per tutta la vita di restituire alla Romania, pur nei limiti della civiltà moderna da sempre osteggiata da Lovinescu, la sua dimensione sacra, “recuperando” al Paese carpatico il suo ruolo e la sua collocazione, nella dimensione eurasiatica, di raccordo tra Oriente e Occidente.
La solitudine di questo scrittore è ben diversa da quella, per esempio, di un suo illustre connazionale, ossia Emil Cioran. Possiamo dire – azzardando un paragone non caricandolo però di un peso eccessivo – che mentre l’autore di Pe culmile disperarii e di Précis de décomposition riveste il ruolo di pars destruens, Lovinescu è la pars costruens di un discorso rivolto alla cosiddetta «nuova generazione», ossia a quei pensatori romeni che si sono avvicendati nei primi decenni del Novecento e che hanno impresso un’importante svolta culturale a una Romania soggiogata dalle potenze occidentali.
In questa antologia emerge invece l’aspetto più “politico” – o, se vogliamo, metapolitico – di Lovinescu. Scrive Claudio Mutti, curatore dell’opera: «Animati dalle medesime aspettative di un radicale cambiamento politico e civile, partecipi del dibattito culturale che si sta svolgendo in Europa, impegnati nelle file del Movimento legionario, Vasile Lovinescu ed Emil Cioran danno voce entrambi, seppure con toni diversi, alle aspirazioni di rinnovamento di quella “nuova generazione” – vera e propria variante romena della “rivoluzione conservatrice” europea – che ha il suo ispiratore e maestro in Nae Ionescu e il suo più celebre rappresentante in Mircea Eliade… Sia Lovinescu sia Cioran preconizzano una “trasfigurazione della Romania”, esprimendo tale concetto con un sintagma, “schimbare la fata”, che nel lessico dell’Ortodossia romena designa la Trasfigurazione e l’Ascensione di Gesù».
A questo punto non sarà inutile ricordare che Lovinescu aderì al Movimento legionario e divenne primar (sindaco) del suo paese natale durante la breve esperienza del governo nazional-legionario – installatosi a Bucarest tra la fine del 1940 e l’inizio del 1941 – del maresciallo Ion Antonescu e di Horia Sima.
Vasile Lovinescu spese pressoché tutta la propria esistenza a scrivere e a meditare. Insegnò pure in un cenacolo alquanto esclusivo da lui stesso fondato, la «Confraternita di Iperione», ai cui incontri parteciparono molti importanti studiosi tradizionali romeni, e che si sciolse nel 1980, allorché il fondatore decise di ritirarsi definitivamente a vita privata a Falticeni.
Ecco come lo ricorda Antonie Plamadeala, allora metropolita ortodosso di Sibiu e della Transilvania: «Le sue estasi erano intellettuali… Formatosi solidamente… su una cultura intensa quanto profonda, cercava in ogni cosa e in tutto i significati nascosti… Spesso passeggiavamo in riva al lago di Rasca, sul limitare del bosco, oppure sul lungo viale di Slatina fiancheggiato da alberi, e lui faceva continuamente delle domande. Era tutta una domanda in permanente sviluppo… Mi dispiace che sia nell’altro mondo. Adesso se passeggiassimo ancora sul viale di Manastirea Slatina o accanto al lago di Manastirea Rasca… sarei io quello che farebbe continuamente delle domande!»
L’opera di Lovinescu, il quale non può essere definito in alcun modo, se non col suo nome, è oggi l’unica chiave di lettura complessiva e integrale per comprendere la Romania e le sue tradizioni e comprendere qualcosa in più del nostro continente eurasiatico.
FONTE: “La Voce del Ribelle”, n. 45.